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A VARAZZE L’OSPITALITA’ E’ TRADIZIONE MILLENARIA

02.06.2023 15:30

Sappiamo che nell’antichità – soprattutto presso Greci e Romani – l’ospitalità era sacra e accogliere l’ospite in casa propria era anche un dovere. L’ospitalità greca comprendeva un elenco di regole non scritte che richiedevano enorme rispetto nei confronti dell’ospite (e viceversa) e prevedevano anche un regalo d’addio; l’ospite, sua volta, era tenuto a ricambiare l’ospitalità.           

Al forestiero che si accoglieva a casa non veniva chiesto né il nome né l’identità, perché era sufficiente trovarsi di fronte a uno straniero in condizione di bisogno affinché scattasse la grammatica dell’ospitalità. 

Gli antichi greci infatti credevano molto nella cortesia verso i viaggiatori poiché pensavano che dietro un viandante potesse celarsi una divinità che, come tale, doveva essere rispettata e onorata.

Basta ricordare l’episodio del XIII libro dell’Odissea di Omero, quando Ulisse torna dopo lunghissime peripezie nella sua Itaca e, riconosciuto prima dal cane Argo e dal pastore Eumeo e poi dal figlio Telemaco, finge di essere un povero viandante per essere accolto in quella casa un tempo sua e ora occupata con arroganza dai Proci.

Qui egli viene ospitato, rifocillato e gli vengono lavati i piedi - secondo l’usanza - dalla vecchia nutrice Euriclea che, notando la cicatrice di una vecchia ferita,  riconosce nel mendicante il padrone Odisseo. 

E’ poi curioso notare come in latino, con la sola variante di una consonante e di una vocale, si esprimevano due concetti diametralmente opposti:      

HOSPES  e  HOSTIS.

Hospes è per l’appunto l’ospite da accogliere e hostis  il nemico da combattere. Da  cui i nostri OSPITALITA’  e OSTILITA’. Così come va considerato che OSPITALITA’ e OSPITE hanno radice etimologica comune con OSPEDALE, il luogo in cui da sempre si accoglie e si cura chi ne ha bisogno. E, infine, è intrigante il fatto che in italiano con il medesimo sostantivo OSPITE si intenda sia chi ospita, sia chi è ospitato.

Anche nel Medioevo l’ospitalità continuò ad essere praticata, pur assumendo caratteristiche particolari. In questo lungo ciclo storico la Chiesa mantenne sempre un ruolo di protagonista e fu proprio da essa che gli ospedali medievali derivarono la loro origine e i loro ordinamenti. In questo periodo l’ospitalità si realizza nei cosiddetti “ospedali” o “ spedali” dove non venivano prestate cure o assistenza  sanitaria, come oggi, ma – rifacendosi alla matrice etimologica a cui abbiamo  accennato - l’ospedale medievale fu luogo di rifugio soprattutto per i viandanti. In  rapporto alla loro fondazione si possono schematicamente suddividere gli ospedali medievali in religiosi (hospitalia publica) e laici (hospitalia privata o  prophana). I primi - sicuramente più numerosi - , fondati direttamente dalle autorità ecclesiastiche (vescovi, abati, capitoli canonicali, ecc.), rispecchiarono  abbastanza fedelmente le strutture organizzative che la Chiesa andava a mano a mano acquisendo e così, dopo gli ospedali diocesani, apparvero quelli monastici e , ancora  più tardi, quelli annessi alle pievi rurali e quelli dipendenti da canoniche regolari.

E veniamo così all’oggetto del nostro incontro di stasera.

Nel Medioevo, tra il 1000 e il 1200 Varazze, o meglio Varagine, aveva nel suo territorio ben quattro luoghi deputati all’accoglienza. Rileggendo in questi giorni ciò che hanno scritto sulla storia della nostra città Patrone, Garea, Costa, Fazio, Accinelli, Delfino, Ruggeri , mi è saltato all’occhio proprio la contemporaneità e consonanza di quanto in Varazze era presente e attivo in quegli anni riguardo all’ospitalità.

Siamo - come detto- fra l’anno 1000 e il 1200. Il territorio è quello che, dal romano  “ad Navalia”,  aveva negli anni assunto il nome di Varagine, con lo spostamento dell’abitato dall’immediato entroterra di Capo Marzio e san Donato, proprio sulla riva del mare. Nell’arco di pochi chilometri , da levante a ponente,  c’erano allora quattro luoghi sacri, deputati anche all’ospitalità:  san Giacomo in Latronorio  (ai piani di san Giacomo tra Cogoleto e Varazze) , la chiesa di S. Maria Vergine (o Chiesa del Crocefisso o del Santo Cristo ) a Invrea , la cosiddetta chiesa si sant’Ambrogio vecchio in Varazze e la chiesa di S. Nazario e Celso.

 

 

 (Parte terza) – Ora (febbraio 2022) in cui si intravvede una possibilità di uscita temporanea (?) dalla pandemia di SARS – Covid-19, mi è sembrato utile ricordare le altre “epidemie” che in passato hanno interessato il territorio di Varazze e, in particolare: peste, lebbra e colera. LA LEBBRA A VARAZZE

La lebbra e la sua diffusione. La lebbra (o morbo di Hansen) è una malattia infettiva cronica, causata dal Mycobacterium leprae, che interessa principalmente la pelle, i nervi periferici, le mucose del tratto respiratorio superiore e gli occhi. Un tempo la malattia era diffusa in tutti i continenti; attualmente, si registrano casi sporadici nei Paesi sviluppati, mentre permangono alcune zone endemiche, la maggior parte delle quali sono localizzate in Africa e in Asia.

Si suppone che la lebbra sia diffusa dalla trasmissione da persona a persona tramite le goccioline e le secrezioni nasali. I contatti casuali (p. es., toccare qualcuno affetto dalla malattia) e i brevi contatti non sembrano in grado di diffondere la malattia. Circa la metà delle persone affette da lebbra ha probabilmente contratto la malattia tramite contatti stretti e a lungo termine con una persona infetta. Anche in caso di contatto con i batteri, la maggior parte delle persone non contrae la lebbra; gli operatori sanitari spesso lavorano per molti anni con persone che hanno la lebbra, senza contrarre la malattia.

La maggior parte (95%) delle persone immunocompetenti con infezione da M. leprae non sviluppa la malattia grazie a un’immunità efficace contro la lebbra. Essa continua a essere associata a un considerevole stigma sociale. Questa credenza riguardante la malattia, probabilmente deriva dal fatto che la lebbra fosse incurabile prima dell’avvento della terapia antibiotica efficace nel 1940. I soggetti con la malattia possono diventare sfigurati e spesso con disabilità importanti, a causa delle quali sono temuti ed evitati dagli altri membri delle comunità. A causa di questo stigma sociale, l’impatto psicologico della lebbra è estremamente rilevante. – (*1)

(Nella foto a lato: Il dott. Gerhard Henrik Armauer Hansen, dermatologo norvegese ricordato per la sua identificazione del batterio Mycobacterium leprae nel 1873 come l’agente eziologico della lebbra.)

La lebbra a Varazze

Anche a Varazze ci furono periodi in cui la lebbra si diffuse tra la popolazione, anche se in un numero limitato di individui.

Fin dagli inizi del secolo, inoltre, i varazzesi avevano dovuto farei conti con una malattia ben più temibile: la lebbra. La tremenda malattia era approdata nel borgo marinaro insieme a Bartolomeo Ratto, forse un marinaio, ritornato da Gibilterra nel 1809. Egli aveva contagiato prima la moglie e poi la famiglia intera. Tra il 1809 e il 1840 22 lebbrosi morirono a Varazze, mentre nel 1840, 21 lebbrosi risultarono ancora in vita, senza essere ricoverati in quel lebbrosario che le Autorità avevano individuato con la trasformazione della chiesa di s. Donato, ma il cui progetto non fu mai realizzato.

Attraverso lo studio dei documenti presso l’Archivio Vescovile di Savona compiuto dai due medici dermatologi savonesi Adriano e Stefano Farris è stato possibile conoscerne la storia negli anni centrali del XIX secolo. – (*2)

Nella maggior parte si tratta di lettere indirizzate dalla Regia Intendenza della Provincia di Savona o dalla Segreteria del Gran Magistero dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro – (*3) al Parroco di San Ambrogio; coprono il periodo che va dal 16 febbraio 1839 al 5 giugno 1846 e trattano del sussidio che veniva erogato ai lebbrosi indigenti di Varazze.

(Nella foto a lato: Documento del 1876 dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro.)

A questo studio mi sono riferito nel riportare le notizie di seguito esposte.

In Liguria nella prima metà del XIX secolo ci si dovette occupare del problema della lebbra e i documenti consultati consentono di estendere nel passato i dati che abbiamo su questa malattia nella nostra Regione; infatti «è solamente in occasione della 1° Conferenza Internazionale per la Lebbra (Berlino, ottobre 1897) che troviamo i primi dati statistici … Il Pellizzari, riferendo al suddetto Congresso, dice che i leprosi viventi in Liguria nel 1897 erano in numero di sette. Questa cifra era probabilmente molto al di sotto della realtà, giacché un’inchiesta eseguita nell’anno seguente, per conto della Direzione Generale della Sanità Pubblica portava il numero dei lebbrosi liguri a 36.»

La lettura dei documenti trascritti [vedi oltre] ci consente di affermare che, nel periodo di tempo che va dal 1839 al 1846, l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro provvedeva ad erogare il sussidio di una lira al giorno alle persone indigenti affette da lebbra abitanti nel Comune di Varazze. E’ altresì sicuro che tale sussidio fosse erogato in anni precedenti, in quanto si fa esplicito riferimento a disposizioni emanate in precedenza da Re Carlo Alberto e si ribadisce che il sussidio «deve continuare» secondo le norme stabilite, norme che vengono trascritte ad uso del nuovo parroco al quale è affidata la distribuzione del sussidio. E’ infatti nel 1839 che viene chiamato a reggere la Parrocchia di S. Ambrogio di Varazze un nuovo sacerdote, don Domenico Ghigliazza, in sostituzione di Don Pasquale Spotorno. E’ inoltre molto verosimile che tale sussidio sia continuato anche in anni successivi al 1846.

Quanto al problema particolare di Varazze i nostri documenti ci informano del fatto che in data 20 maggio 1839 i lebbrosi che ricevono il sussidio sono otto, in data 24 novembre 840 sono ancora otto, in data 26 luglio 1841 sono quindici, in lata 23 luglio 1842 sono tredici, in data 7 agosto 1843 sono undici, in data 18 luglio 1844 sono dieci. Prima di attribuire valore statistico a questi dati è necessario tener conto di vari altri elementi. Anzitutto occorre precisare che il sussidio veniva concesso solo agli ammalati indigenti, il che può significare che il numero dei lebbrosi che lo ricevevano sia stato inferiore al numero reale. Per questa ragione abbiamo voluto estendere la nostra ricerca all’Archivio Comunale di Varazze ed abbiamo trovato alcuni documenti che ci consentono di integrare i dati fin qui raccolti. Risulta così che nel 1839 il numero reale dei lebbrosi di Varazze risulta essere di quindici, dei quali è stilato un accurato elenco nominativo, con indicazioni di particolare interesse.

Eccone un esempio:

1) – Fazio Cattarina moglie di Gio B.a maritata 53 Caminata Contadina Mostruosa nel viso colla perdita quasi dell’intiero naso Ammessa [si intende “al sussidio comunale”] L’incremento pare evidente. Cominciò tale malattia nel 1807 nella moglie di certo Bartolomeo Botta di ritorno da Gibilterra; successivamente si sviluppò nel marito, e figli, e nel decorso di più anni susseguiva l’intiera famiglia.

Un altro documento, senza data ma probabilmente redatto nella prima metà del 1838 in quanto vi compaiono nominativi di ammalati che in un altro documento troviamo elencati tra i deceduti nella seconda metà del 1838.

Eccone due esempi nei quali è annotata l’evoluzione della malattia:
1) – Fazio Cattarina moglie di Gio Batta un’occhio perduto dall’onghia il sinistro che più non vedea gli oggetti che confusi si è rischiarato, non esistono più tubercoli; ne piaghe che una poco estesa alla gamba, una narice da molto è distrutta il naso guarito resta con una esiste una crosta secca sul viso
2) – Fazio Bernardo fu Giobatta. I tubercoli non erano ancora aperti; dopo la cura comune sottrazioni sanguigne ogni tanto, qualche purgante, vesicanti, unzioni mercuriali la faccia, a le estremità sono sgonfiate; i tubercoli due terzi svaniti.

Da questo documento si hanno importanti informazioni sulla terapia che veniva praticata: sottrazioni di sangue mediante salasso o applicazione di mignatte, purganti, revulsivi ad azione vescicante (probabilmente veniva usata la cantaride applicata sulla cute), unzioni con unguento mercuriale. E’ interessante rilevare come, secondo il compilatore, tali provvedimenti terapeutici potessero determinare un miglioramento che non sapremmo invero a che cosa attribuire dato il danno delle sottrazioni ematiche e la tossicità dell’assorbimento transcutaneo del mercurio.

                     Deformazione e mutilazione degli arti inferiori causati dalla lebbra

La datazione del focolaio varazzino può trovare notizie anteriori al 1838 in un documento dell’Archivio Comunale che riporta lo «Stato de’ Lebbrosi Deceduti». Non ci consente di stabilire quanti fossero gli ammalati nei singoli anni, ma ci permette però di affermare che già nei primissimi anni del XIX secolo il problema della lebbra a Varazze era alla attenzione dell’autorità comunale e si trattava quindi di un focolaio probabilmente più antico; vi si trovano elencati ventidue nominativi di persone decedute per lebbra nel periodo che va dal 11 novembre 1809 al 2 dicembre 1840.

Non sembrò forse però del tutto sufficiente, per il focolaio di Varazze, tale provvedimento, se si arrivò poi a progettare la costruzione di un lebbrosario utilizzando la Chiesa di San Donato. La finalità evidente era quella di arrivare ad un isolamento degli ammalati e le motivazioni appaiono esplicitamente nella lettera indirizzata al Vicario dal Parroco di S. Ambrogio «levare di mezzo ad una numerosa popolazione gli affetti di lebbra, i quali potrebbero col tempo essere di somma rovina al commercio, alla pubblica quiete e salute commune…».

A questo punto le preoccupazioni di Sua Maestà sono anche quelle che si possano fare risparmi sul sussidio concesso ai lebbrosi per poterli utilizzare nella costruzione del lebbrosario come richiesto dal Parroco di S. Ambrogio e dispone che tali risparmi vengano invece ridistribuiti in derrate o in farmaci, per evitare che si possano nel frattempo creare condizioni di maggiore precarietà.

Crediamo insomma che il problema della lebbra sia stato esaminato, anche nel XIX secolo, con una diffidenza che non è di molto inferiore a quella medievale e che, per quanto riguarda in particolare la profilassi, si sia dovuti arrivare ai giorni nostri per sapere che possono essere utilmente messi in opera strumenti come quelli che coinvolgono i meccanismi immunologici.

Interessante è ricordare infine che la Commissione nominata dal Ministero dell’interno nel 1912 segnalava esservi a Varazze un solo lebbroso, ma altre ricerche portavano a sei, nel 1919, il numero dei lebbrosi di Varazze e altre ancora, nel 1927 lo aumentavano a sette; in epoca più recente il focolaio di Varazze risulta attivo nel 1947 e, con due malati, nel 1953. Non disponiamo attualmente di dati stabiliti sulla base di recenti indagini specifiche, ma abbiamo ragione di ritenere che il focolaio hanseniano non fosse, fino a qualche anno fa, del tutto spento, – (*4)

Di seguito alcuni tra i documenti analizzati dai due studiosi (in forma di documento fotografico):

 

La lebbra, dal 1981, si può curare grazie alla polichemioterapia – PCT (associazione di tre farmaci). Dopo l’inizio di questo trattamento, il paziente non è più contagioso e, quindi, non è necessario l’isolamento.

Come si legge in un documento diffuso dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follerau (*5), ogni anno nel nostro Paese si diagnosticano dai 6 ai 9 nuovi casi che si presentano come patologia di importazione. Ovvero, sono italiani che hanno soggiornato all’estero in Paesi con lebbre endemica o migranti provenienti da questi Paesi.


Situazione della diffusione della lebbra nel mondo agli inizi del XXI sec.

 

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